Dunkirk e il senso di Nolan per il tempo

Come abbia fatto Christopher Nolan a raccontare una storia dal ritmo al cardiopalma “annoiando a morte” è, per me, un mistero tutto da risolvere. Probabilmente è un genio. Un genio che, con l’ausilio di una sceneggiatura dalla precisione a dir poco chirurgica e grazie a un’incredibile gestione dello spazio scenico, ha saputo restituire alla vicenda narrata in Dunkirk (2017) il senso stringente e realistico – quasi documentaristico – della Storia, spostando i virtuosismi e la retorica dai contenuti (le circostanze, i luoghi, i personaggi e le relazioni) alla costruzione invisibile, impalpabile, eppur recepibile del tempo. Se il racconto annoia è perché non c’è, Nolan non sembra voler perdersi dietro a una singola o più storyline e così ripartisce il carico della narrazione su più personaggi, più esistenze, più situazioni, senza prenderne a cuore nessuna, o almeno non quella che, idealmente e pragmaticamente, le tiene legate tutte, ossia l’evacuazione di Dunkerque.

Il protagonista diventa così una folla spersonalizzata, un gruppo in cui riconoscere qualche volto senza mai poterne conoscere nessuno. Nel film, perciò, non sussiste nemmeno il collante della coralità, cui trarre un significato condiviso e condivisibile (con il pubblico). No, qui c’è una moltitudine di figure quasi anonime di cui non si intercettano i sogni e/o i fallimenti. E’ la guerra, dove non c’è il tempo per riflettere, se non a posteriori. Anzi, è il momento preciso di una guerra in cui bisogna, più che combattere, resistere. Ed è proprio quello che fa Nolan: selezionare le forze di resistenza, ri-assegnarle e coordinarle. Fa cioè un magistrale lavoro di taglia e cuci in cui gli esistenti, la loro gravità, variano a seconda dell’elemento naturale coinvolto, dei mezzi di trasporto utilizzati e della velocità di percorrenza. A terra il tutto si svolge in una settimana, per mare in un giorno, in aria un’ora. Cambiano il punto di vista e la durata effettiva dei blocchi: più ellissi per il primo, meno per il secondo, quasi nessuna per il terzo. Un’orchestrazione che, alla fine, condurrà all’inevitabile collisione che però non si verificherà – come presagibile – tra mezzi, armi e persone, bensì tra situazioni, luoghi e momenti, una collisione virtuale attuata solo in termini di montaggio. Il fallimento bellico raccontato in Dunkirk, che è anche un successo di resistenza umana, è soprattutto una vittoria del cinema – e di Nolan – che, nel manipolare lo spazio e il tempo cinematografici, si dimostra in grado di proporre un altro (collaterale) significato della Storia. Dunkirk, in pratica, non è né un film di guerra – ha poco e nulla dei cliché di genere – né un film storico, ma è un film storiografico.

Detto così sembrerebbe un film perfetto, tanto ragionevolmente rigido (e noioso) quanto tecnicamente eccezionale, eppure il lavoro di Nolan, a mio avviso, fallisce proprio lì dove si rivela più ambizioso e originale, e cioè nel pianificare il tempo totale, nell’aspetto più macroscopico della sceneggiatura in cui vengono articolati i tre blocchi narrativi. Preso singolarmente ogni blocco – terra, mare, aria – risulta perfettamente funzionale, tuttavia nel combinarli il regista sembra non riuscire a esplicitarne le effettive durate e le relative differite (segnalate e spiegate in altre sedi). Tale mancanza, che non inficia in alcun modo l’evoluzione di un racconto comunque scomposto, finisce però con l’annientare l’hic et nunc di momenti che, nell’economia di una narrazione che possiede soprattutto un’urgenza cronologica e vanta una drammaturgia strettamente legata al tempo – la colonna sonora di Hans Zimmer non fa altro che ricordarcelo per tutto il film – sarebbero risultati più orientanti e edificanti, o  se non altro giustificanti la peculiare correlazione.

In soldoni, il film si sviluppa secondo una linearità che, a quanto pare, non possiede e anzi rifiuta nell’ambizione di costruire un complesso climax “apatico” e formale. Al netto del misunderstanding, resta comunque un film maestoso e affascinante, ma il coinvolgimento è tutto intellettuale e, a guardar bene, in parte mal riposto, tradito, e forse anche “impersistente”.

Le repliche sono terminate.