Split-script

Che sia tornato ai “vecchi fasti” e alle “buone storie” è un’affermazione che chi ama il cinema di Shyamalan non si sognerebbe mai di fare. E non solo perché Split (M. Night Shyamalan, 2016), la sua ultima fatica, non è un film particolarmente interessante o originale, ma anche perché si tiene lontano sia dai meccanismi narrativi a chiave degli esordi – che da subito ne hanno fatto non una stella nascente del cinema contemporaneo ma una meteora in caduta libera – sia dalle fuorvianti soluzioni allegoriche inseguite successivamente. Split sfrutta un po’ l’uno e un po’ l’altra senza perseguirne nessuno, è cioè un thriller metodico ma privo di autentici colpi di scena – anche se il regista gioca sulla sua fama di affabulatore a effetto suggerendo diverse possibilità – e una parabola sullo sviluppo della mostruosità ma senza spostamento del punto di vista o ribaltamento di ruolo o, ancora, priva di una qualsivoglia deriva spirituale. Come Il Sesto Senso – film al quale, per estetica di genere e struttura narrativa, è facilmente accostabile – Split tradisce ogni previsione – dove lì era l’immediato percepibile mentre qui è la pura e reiterata allusione – ma diversamente dal primo pare non volerla né colmare né risolvere. Split, infatti, resta quello che sembra fin dall’inizio, una favola nera ben raccontata ma senza particolari exploit, in cui la narrazione, concentrata e modesta, sembra cozzare con lo sperimentalismo testuale più volte osato dal regista, almeno fino all’epilogo, dove quella prevedibilità viene addirittura superata.

E allora diciamolo che Split vanta il miglior twist ending dell’intera filmografia del Nostro, e non solo perché modifica completamente la prospettiva sulla propria storia – che passa dall’essere un thriller psicologico e un horror soprannaturale, a un cinecomic in cui il male ha una portata ben più tangibile e devastante – ma anche perché, inserendosi in un universo preesistente, quello di Unbreakable (M. N. Shyamalan, 2000), ha la possibilità di ricalibrare la prospettiva su altre storie, altre realtà, altri film (passati e futuri). Il twist ending finisce così per diventare più importante della vicenda che chiude, poiché tramuta un film tutto sommato sterile – in cui un individuo dalla personalità dissociata passa dal livello Norman Bates a super sayan della mostruosità – in un’occasione unica, quella di offrire lo spazio necessario per tracciare il profilo di un villain strepitoso e permettere a eventuali (futuri e ovvi) contributi di confezionare un’atipica saga sui supereroi, capace di spostarsi dall’asse della superficialità all’asse della profondità e sostituendo a una variegata vastità la più intima e oscura introspezione.

Shyamalan, in maniera molto intelligente, si serve di uno stratagemma già recentemente sfruttato da J. J. Abrams per 10 Cloverfield Lane (Dan Trachtenberg, 2016), che appunto inscriveva la disavventura claustrofobica di Michelle/Mary Elizabeth Winstead all’interno dell’universo fantascientifico di Cloverfield (Matt Reeves, 2008). Con Split, tuttavia, Shyamalan lavora un po’ più di fino. Prima di tutto disertando la missione marchettara di J. J. Abrams – il cui scopo primario era quello di dare maggior slancio mediatico a un piccolo ma solido thriller prodotto dalla Bad Robot, la sua casa di produzione – e servendosi di Unbreakable come di un richiamo senza particolari finalità, un inside joke dedicato essenzialmente ai fan. Il film, infatti, non solo non è mai integrato nel testo, non è suggerito dal paratesto e dal battage pubblicitario di Split, ma si attiva solo se lo spettatore lo ha visto (in caso contrario la narrazione non ne risente). In secondo luogo lavora sui generi in maniera elegantemente autoreferenziale, impiegando cioè non solo il congeniale supernatural horror come anello di congiunzione tra due generi sensibilmente diversi (il thriller psicologico e il cinecomic), ma giocando sulla sua reputazione di maestro del twist plot per disorientare completamente lo spettatore. Insomma, se 10 Cloverfied Lane sfruttava la fama di un film di successo e sulla scia di quella realizzava il suo, al contrario Split costruisce meticolosamente la sua fama per rilanciare (ed espandere) un film di nicchia molto amato dal suo stesso autore.

Sono allora da leggersi in questo senso la presenza di James McAvoy/Kevin e Anya Taylor‑Joy/Casey. Lui, strabiliante interprete ed eroe della nuova generazione di X-Men, e lei, reduce dal successo di The Witch (Robert Eggers, 2015) in cui si faceva sedurre dal male, vantavano entrambi il curriculum e la “fedina attoriale” ideali per agganciare e ingannare lo spettatore. Solo che il punto, in questa circostanza, non è tanto chi sia il “lupo cattivo”, ma quanto figurato si presuppone che sia…

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