The Shallows: la giovane e il mare

theshallows1E’ sempre molto istruttivo il lavoro di mutilazione che la titolazione italiana sembra voler infliggere alla cinematografia estera, conformandola alle (im)medi(at)e esigenze del marketing – o dei marchettari – che riduce i prodotti culturali, almeno sul piano della prevendibilità, a un significato unico, a un tema chiaro e a un genere preciso, capaci di attirare un target mirato. Talvolta quel lavoro appare meno castrante, meno reo, altre però tradisce una vera e propria cecità che è quella di non saper cogliere e promuovere ciò che un prodotto in realtà intende proporre. “E’ poca cosa” obietterà qualcuno, ma la verità è che così facendo, in qualche modo, si snaturano i prodotti, si disorientano i destinatari e si altera la ricezione potenziale. Un titolo fa parte dell’opera non meno di una scena, di un accompagnamento musicale o di un personaggio che nessuno si sognerebbe mai di cancellare e sostituire. Spesso e volentieri il titolo ci dice di un’opera quello che la storia occulta per mere questioni drammaturgiche, rappresentando de facto un indizio, un suggerimento, una suggestione più o meno rilevanti.

L’altra sera – e poi di nuovo ieri sera perché certe cose mi ossessionano – ho visto Paradise Beach: dentro l’incubo (Jaume Collet-Serra, 2016), un film che a leggere il titolo parrebbe una di quelle produzioni paratelevisive dove c’è una spiaggia paradisiaca in cui qualcosa di terribile accade, ma che magicamente si risolve al costo di qualche attore alle prime armi che schiatta malissimo. Insomma, uno di quei film che vedrebbero in sala solo il mio cugino tamarro e Yotobi. Ora, nonostante la trama sia proprio questa, il film è tutt’altro che televisivo, grossolano e scontato, ma anzi, si presenta piuttosto ricercato, tanto che durante la visione non ho potuto fare a meno di pensare che se Alfred Hitchcock fosse stato in vita l’avrebbe realizzato esattamente così. theshallows2Proprio come i film del maestro della suspense, Paradise Beach: dentro l’incubo nasce da un’idea semplice che, attraverso una certa composizione audiovisiva, riesce ad articolare un corpus consistente di riflessioni ed emozioni piuttosto vivide. Certo, qui la pulsione insopprimibile raccontata non ha a che fare con la sessualità, ma interessa un’altra ossessione, che è quella del controllo. L’algida protagonista – una strabiliante Blake Lively – non solo ci racconta a parole, a gesti e tramite precisi atteggiamenti che non riesce ad accettare che qualcosa non possa essere programmato o accomodato, ma lo stesso regista, attraverso soluzioni nuove ed efficaci, riesce a scandire lungo l’intero film l’urgenza e l’importanza che riveste il blocco emotivo e comportamentale della protagonista aldilà delle terribili contingenze. In molti film sul genere uno squalo resta un semplice predatore, nonché unico e letale antagonista, in questo rappresenta una sorta di life coach particolarmente ostinato, dedito a liberare la protagonista dalle sue fisime. Ecco perché – e qui torniamo alla questione del titolo – è di grande importanza che il nome del luogo di ambientazione non si scopra mai e che sia piuttosto sottolineata la distanza tra la location in cui si svolge l’azione e l’universo abituale della protagonista.  Collet-Serra si adopera non solo occultando a più riprese il nome della spiaggia, ma stabilendo una connessione con la vita di Nancy (sia su coordinate spaziali, le telefonate alla sorella e al padre in Texas, sia temporali, le fotografie della madre morta salvate sul dispositivo) senza mai violare l’unità di tempo, di luogo e d’azione. L’utilizzo che il regista fa dello smartphone, disponendo piccoli schermi all’interno dell’inquadratura senza mai cedere al classico controcampo, è perfettamente funzionale, così come l’idea di non restringere il campo sul volto della Lively durante le conversazioni (relegato anch’esso sui piccoli schermi) – scelta che avrebbe accorciato le distanze fisiche e virtuali tra la realtà mostrata e quella della famiglia – mantenendo invece nell’inquadratura principale la spiaggia, i suoi colori, i suoi rumori, la sua fisica. La baia, infatti, non è tanto un luogo reale in cui vive una minaccia reale (uno squalo), quanto un limbo psichico da cui fare ritorno, ma non prima di aver superato i propri limiti. Ecco perché sostituire il titolo originale con un’informazione che non viene mai data, perché non deve essere rivelata, rappresenta sostanzialmente una scelta idiota.

theshallows3Il titolo originale del film è, infatti, The Shallows, che letteralmente significa “le secche”, “le acque basse”. Nell’ottica della narrazione, che si dipana attraverso un’efficiente racconto di genere – saldo e privo di tempi morti – e una riuscita indagine esistenziale – in cui si passa dall’elaborazione del lutto all’accettazione delle proprie fragilità – le secche rappresentano un ponte tra il significato mostrato, ossia un riparo temporaneo dai pericoli dell’acqua alta e da quello che vi si può nascondere, e quello suggerito, cioè una fase di stallo lungo il proprio percorso di vita. Il titolo, dunque, non intende segnalare il pericolo rappresentato dallo squalo o concentrarsi esclusivamente sull’ambientazione (come fa banalmente quello italiano), ma sposta deliberatamente l’attenzione su un dettaglio, sulle secche, sui pro e i contro dati dalle fluttuazioni delle maree. Personalmente lo trovo ingegnoso e molto poetico. Non solo, il tema fissa l’andamento dell’intero film regolando in maniera originale la narrazione. Il ritmo, infatti, viene scandito mostrando i tempi residui di bassa e alta marea che ripartiscono in maniera equilibrata i momenti di pausa/riflessione e quelli d’azione/intrattenimento, rappresentando così un validissimo assetto drammaturgico.

theshallows4Tra i pregi del film vanno inoltre annoverate le soluzioni di montaggio dentro e fuori dall’acqua, accompagnate da un’interessante alternanza tra sound off e sound on – che replicano in parte gli effetti sentiti in Gravity (Alfonso Cuaron, 2014) – capace di influire sulla resa “climatica” delle sequenze. Se fuori dall’acqua vige una percezione onnicomprensiva e realistica della realtà, in grado di coinvolgere tutti i sensi, al contrario in acqua assistiamo a una sorta di rarefazione dell’esistente e ottundimento delle percezioni. E’ qui che al realismo sembra sostituirsi un surrealismo affascinante e inquietante (la sequenza del primo attacco in cui l’acqua si tinge di rosso sul volto sofferente di Nancy che urla senza che suono esca dalla sua bocca, quella delle meduse luminescenti e ancora la scena della morte dello squalo, in cui come in un sogno una nuvola di sabbia avvolge e cancella tutto, lasciando che la ragazza si risvegli confusa sulla spiaggia). Infine, anche se ci sarebbe molto altro da dire, il gabbiano. Il gabbiano, entità ostile nel film Gli Uccelli – da cui peraltro viene ripresa e ribaltata la sequenza dell’incidente in cui Tippi Hedren viene ferita da un volatile durante la traversata a Bodega Bay – altro non è che una parte per il tutto, una sineddoche che magnificamente sintetizza il ruolo attivo e passivo della protagonista, la sua capacità di controllare o meno gli accadimenti, il potere di salvaguardare e la possibilità di essere protetti, l’essere fautore o vittima degli eventi. Insomma, un segnalino simbolico utile a imbeccare l’importanza dell’umiltà e dell’empatia. A fine film la giovane Nancy si trova nuovamente sulla riva di una spiaggia. Questa volta la spiaggia è quella di casa sua, in Texas, e insieme a lei c’è la sua famiglia. Si sfiora la cicatrice e si tuffa tra le onde con una nuova sicurezza. Per me, un piccolo capolavoro.

Le repliche sono terminate.