Aloha incertezza

magicinaloha1Tra il 2014 e il 2015 sono usciti due film che, per ragioni simili, hanno riportato record negativi presso critica e botteghino. I due film, per quanto abbastanza distanti tra loro, condividono una narrazione e un’estetica poco centrate e apparentemente deboli. Apparentemente perché, a prescindere dall’effettiva semplicità compositiva e dalle realtà naif che questi prodotti esibiscono, la ricezione negativa sembra principalmente dovuta alla loro natura “autoriale”, e cioè alla mancata soddisfazione di specifiche aspettative riposte dal pubblico. I film, infatti, potrebbero essere classificati come “deviazioni” rispetto al percorso, ormai codificato e coerente, dei registi che li hanno realizzati, ma non per questo sono da ritenersi poco interessanti o inefficaci. Più precisamente, i film sembrano perseguire una comune ambizione: lo sgombero delle sovrastrutture socioculturali e la messa in discussione di una certa drammaturgia relazionale, e tutto per il recupero della semplicità e del candore dei sentimenti. La leggerezza con la quale questo recupero avviene è tutt’altro che casuale, o l’effetto collaterale di una fiacchezza creativa, ma rivela una padronanza degli strumenti linguistici del cinema davvero ammirevole. Le circostanze in cui certi personaggi sono catapultati sulla scena, o la semplicità con cui sembrano sciogliersi alcuni nodi della narrazione, o ancora la totale delega alla fotografia nella definizione di ciò che è rilevante, più che ingenuità, paiono gli effetti speciali di una saggezza senescente, capace di donare alle due commedie un fioco romanticismo, magico nella misura in cui sta per scomparire per sempre.  Certo, un autore è molto più anziano dell’altro, ma l’impressione è che il rapporto con l’esistenza sia, per entrambi, piuttosto “sereno”. Nei film, infatti, si respira un’atmosfera caduca e lontana che, in maniera elegante, rende plausibili eventuali ambiguità di registro…

magicinaloha2Protagonista assoluta di questa mission “quasi” impossible è, in entrambi i film, la straordinaria ed eterea Emma Stone, musa di quello spirito del passato che, tra una gag e l’altra, si manifesta nel suo sguardo trasparente e profondissimo. Sia in Magic in the Moonlight (Woody Allen, 2014), sia in Aloha (Cameron Crowe, 2015) si rinvengono facilmente quelle caratteristiche che hanno reso uniche e riconoscibili le regie di questi due filmmaker eppure, a causa del loro inatteso “sperimentalismo all’indietro” – dove il recupero della mimica marcata, del minimalismo verbale (quando non il silenzio totale) e dell’uso rivelatore dell’illuminazione rappresentano più che un semplice omaggio al cinema muto – entrambi sembrano destinati al dimenticatoio. Errore e orrore!

Proprio a partire dai personaggi interpretati dalla Stone – Allison in Aloha e Sophie in Magic in the moonlight – è possibile fare una curiosa riflessione. Sia Allison sia Sophie ricoprono, all’interno dei film, due ruoli “cifrati” che, in qualche modo, ne nascondono le caratteristiche effettive. La prima è un militare, un pilota dell’areonautica, tutta divisa e disciplina, mentre la seconda è una medium, artefatta dalle improbabili mise fino alla gestualità pacchiana, entrambe insomma recitano una parte. Man mano che i film procedono, tuttavia, la maschera cade e Allison e Sophie tradiscono le loro vere nature: non sono due cialtrone, ma si servono del loro “travestimento” per occultare il loro essere speciali. Se Sophie non è un’autentica medium è però capace di mettere in contatto l’universo scettico e terreno con una spiritualità perduta, e solo con la potenza della sua ingenuità (che qui rappresenta una qualità). Stessa cosa per Allison che, pur esercitando diligentemente i suoi compiti e sembrando parimenti “caricaturale”, si dimostra più adatta di altri ad agire per il bene comune, oltre l’ordine precostituito. In contrasto, le figure maschili, vittime delle circostanze e delle donne che hanno scelto di amare (ma dalle quali man mano si allontanano), non recitano una parte ma la esercitano in quanto professione, interiorizzandone il ruolo. Colin Firth/Stanley, in Magic in the moonlight, è un illusionista che crede di sapere tutto sulla realtà che lo circonda tanto da poterla controllare, mentre Bradley Cooper/Brian, in Aloha, è un borioso general contractor, ossia il responsabile pluridecorato di una missione militare segreta a Honolulu. I due uomini, così saldi sulle loro posizioni e certi che nulla di imprevedibile possa accadere nelle loro vite, si trovano presto a fare i conti con dettagli, evoluzioni e suggestioni che non solo prima non magicinaloha3riuscivano a percepire, ma che ora fanno fatica ad accettare perché in grado di mettere in crisi i rispettivi e limitati sistemi di fede. Se per Stanley la svolta avviene nel momento in cui scopre il raggiro di Sophie, per Brian deriva dalla scoperta che la sua missione è tutt’altro che benefica. Messi di fronte alla prova che l’impossibile è possibile, entrambi possono sganciarsi dai preconcetti e deporre i ruoli e, infine, recuperare le loro fragilità per farne virtù.

In questo gioco delle parti, in cui la realtà effettiva non si dà mai per scontata – i rimbalzi tra reale e irreale o autentico e simulato sono addirittura avvincenti – il cielo appare come lo scenario perfetto dove poter liberare l’umanità dalle soffocanti sovrastrutture. Se in Magic in the moonlight il cielo stellato e immutato suggerisce a Brian che i sentimenti non sono solo ricordi del passato – e proprio per questo il film, ambientato in un limbo, resta volutamente ambiguo sul tempo della narrazione – in Aloha la questione si gioca sugli spazi, suggerendo che “sotto il cielo delle Hawaii” la coscienza primordiale può risvegliarsi (“Io credo nella nostra terra, nei nostri miti, e nelle nostre tradizioni… e più di tutto credo nel cielo” afferma Allison). Il cielo per orientarsi in un mondo che cambia ma che, dopotutto, è sempre lo stesso.

magicinaloha4Lo scopo di Allen e Crowe, allora, non è quello di raccontare due storie ricche di eventi e colpi di scena, forti di solide narrazioni e considerazioni indiscutibili ancorate al presente, ma è quello di allestire con i materiali e i personaggi di oggi storie antiche ma sempre attuali, e raccontare l’inesauribile bisogno che l’uomo ha di credere e scoprire, oltre le certezze dello scibile. La debolezza della sceneggiatura, perciò, non è in questo caso un difetto, bensì un dovere per preservare l’essenziale, specie se la forza della vicenda è demandata ai dialoghi, agli sguardi, ai gesti e a ciò che non viene mai spiegato…

Le repliche sono terminate.