Boyhood, 12 anni in libertà

12boyhood1Molti non sanno che l’ultimo film di Richard Linklater, il candidato all’Oscar 2015 Boyhood (R. Linklater, 2014), fu inizialmente intitolato The Twelve Year Movie. Alla fine delle riprese il regista semplificò il titolo in The Twelve Year, ma fu subito costretto a modificarlo a causa dell’uscita del film – poi candidato e premiato agli Oscar 2014 – 12 Years a Slave (S. McQueen, 2013), con il quale Linklater pensava potesse essere confuso il suo progetto. Questa premessa richiama, in modo quasi bizzarro, un pensiero che ho avuto durante la visione di Boyhood e che mi ha (forse) permesso di individuare l’origine della sua forza e bellezza. La relazione tra i film citati non si ferma, infatti, al dato statico del titolo, ma “logicamente” si estende al dato temporale: Boyhood e 12 Years a Slave condividono il tempo della storia, ossia l’arco di tempo narrato. Docici anni appunto. A cambiare è, invece, il tempo del racconto, ossia la selezione e la cadenza degli eventi ripartiti secondo scelte narrative specifiche (introduzione di salti temporali, dilatazione, flashback, flashforward…), ed è proprio questa differenza a definire lo scarto tra l’efficacia enunciativa di Boyhood e quella di 12 Years a Slave.

La narrazione visiva, successivamente al momento puramente estetico e mostrativo, si struttura per accumulo. Se l’alternarsi e lo scorrere di immagini non bastano a raccontare il tempo, precisi rapporti tra di esse possono restituire il senso del tempo che scorre. L’evoluzione narrativa (non esclusivamente temporale) non ha dunque a che fare solo con la giustapposizione di immagini che raccontano la storia, ma anche e soprattutto con l’uso dei raccordi. Di conseguenza dire o suggerire visivamente che (nel film) sono trascorsi 12 anni, non è lo stesso – sul piano dell’espressività – che orchestrare, una a una, tutte le tensioni del cambiamento.

12boyhood2Ora, l’esperimento temporale proposto da Boyhood è il primo nel suo genere e quindi è difficile stabilire la misura della sua efficacia in termini di regia rispetto all’impiego del tempo effettivamente trascorso per la sua realizzazione. Tuttavia possiamo facilmente rilevare le debolezze della costruzione del tempo trascorso adottata nel film di McQueen che, invece, si inserisce in un panorama più ampio di variazioni sul tema.
Lo sviluppo del tempo della storia dipende dall’orchestrazione delle immagini, ma in cosa consiste questa orchestrazione? Prima di tutto dipende dalla singola immagine, dalle informazioni (temporali) che essa veicola sia attraverso una costruzione formale sia contenutistica. In secondo luogo dipende dall’articolazione di queste immagini e quindi dalla struttura d’insieme che si realizza. Il tempo della storia dei due film – si è detto – è lo stesso, dodici anni, ma le due strutture assumono contorni diversi. Se in 12 Years a Slave le singole immagini raccontano ben pochi cambiamenti (l’aspetto estetico del protagonista resta abbastanza invariato lungo il film e i contesti di riferimento spaziale offrono pochi altri suggerimenti), Boyhood mostra ad alta frequenza le mutazioni del tempo, che sono in parte naturali e sistematiche, ma anche accuratamente selezionate ed enfatizzate (cambiamenti fisici del personaggi, del luoghi, delle situazioni, delle tendenze culturali). L’accumulazione informativa, e quindi la struttura del tempo storico, risulta più puntuale e chiara nel film di Linklater, ma questa prima distinzione non basta a decretare la debolezza di 12 Years a Slave rispetto a Boyhood. Le cause, piuttosto, sono da ricercare nelle più complesse strutture del tempo del racconto.

12boyhood3All’apparenza il tempo del racconto sembrerebbe più facilmente gestibile da un film come Boyhood perché esso non ha bisogno (e non ne fa uso) di espedienti narrativi utili a segnalare fluttuazioni di tempo. Boyhood si serve, infatti, solo di ellissi introdotte da un montaggio consequenziale. 12 Years a Slave, invece, si serve di precisi artifici (ellissi, flashback, riferimenti scritti e verbali), ma li utilizza per sottolineare, più che il trascorrere del tempo, il patetismo della vicenda. I diversi approcci producono due effetti distinti. Nel caso di Boyhood il tempo che scorre e la storia che avanza si avvertono sensibilmente, pur senza reali momenti di “svolta” (plot point). In 12 Years a Slave, invece, si assiste alla storia senza percepire distintamente il passare del tempo. In questo caso, anche se gli episodi di “svolta” sono più numerosi e incisivi, tendono a produrre una tensione intermittente e dispersiva. La struttura del tempo del discorso si genera, infatti, per processualità, ed è facile osservare che mentre in Boyhood il tempo assume una dimensione formativa e innescante, in 12 Years Slave si vuole indugiare in un’immutabile e indefinibile – e quindi non esperienziale – loop temporale.  Sono dodici anni, ma potrebbero essere dodici mesi, o peggio, dodici giorni, lassi temporali che, di certo, smorzerebbero l’esperienza dolorosa di Solomon Northup… Opportunamente segmentato il film di McQueen appare più centrato, ma in generale è il film di Linklater a formulare un discorso sugli effetti del tempo più misurato ed efficace. E a pensarci, la selezione e articolazione di dodici anni di materiale girato in libertà riferisce un’impresa ben più ardua della selezione e gestione di materiale realizzato in un mese e mezzo sulla base di una sceneggiatura. 12boyhood4Entrambi i progetti, a prescindere dal periodo storico trattato, dall’entità degli eventi esaminati, dalla propria missione comunicativa, intendono trasmettere con i loro rispettivi titoli e le loro ambizioni narrative non una storia, ma il suo peso temporale e l’impatto che questo ha sulle azioni (fisiche) e le reazioni (psichiche) dei personaggi. Ma tra i due è solo Boyhood che riesce a “sostenerlo”. Per ogni spettatore, che del tempo ha una percezione affettiva e catartica, Boyhood non può che rappresentare un’esperienza unica, coinvolgente e rivelatrice, capace di suggerire che la vita è intensa, ma solo quando la si osserva a posteriori.

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