La La Land. Non chiamatelo musical…

Oppure sì, ma consideratelo come qualcosa di diverso, di unico, che come tanti altri film della contemporaneità si serve delle vestigia del cinema del passato come un’esca, un’illusione per ingannare lo spettatore e scardinare antiche credenze e tradire vecchie fiducie – come già Allied o Ave, Cesare! – mentre furtivo pianifica nuovi modi per raccontare e stupire oltre la prevedibilità. La La Land (Damien Chazelle, 2016) non è un musical nel senso tradizionale del termine, ma un film in cui la musica e la danza giocano un ruolo tutt’altro che spettacolare. La storia, diversamente dal musical classico, non si riversa fuori dalle scene, oltre la quarta parete, non ha il respiro della platea, ma al contrario vive nascosta, affannata e sospirata, nei teatri di posa, tra i labirinti formati dagli splendidi fondali sui quali è dipinta una Los Angeles da cartolina.  Ed è per questo che la mdp non si limita a osservarne immobile e incantata i movimenti, ma cerca costantemente di stanare i suoi protagonisti pedinandoli come uno stalker.

Damien Chazelle ricicla il musical, del quale sfrutta i ritmi e le astrazioni narrative, per dedicarsi a una storia che, dello spirito performativo del musical, non ha nulla. Ciò che viene narrato ha una natura privata, privatissima, come quella che ognuno di noi intrattiene con la propria esistenza, un’esistenza frammentata e immagazzinata nella memoria per essere rievocata nel tempo, proprio come se fosse un film personale. Alfred Hitchcock diceva: “Il cinema è la vita senza le parti noiose” e questo è un film in cui le parti interessanti sono il frutto della più intima interpretazione, in cui ogni accadimento è alterato dai propri desideri e dalle proprie speranze e perciò assume una dimensione fantastica e surreale in cui si canta, si suona, si danza, e in cui ogni gesto ha una colonna sonora e ogni situazione ha un colore, un clima, un mood (a prescindere dalle scansioni del tempo e delle stagioni). Per questa ragione La La Land è più vicino alla musicalità narrativa della nouvelle vague francese, da cui preleva le tonalità sonore – I Quattrocento Colpi e Les Parapluies de Cherbourg – coreografiche – Bande à part e Zazie nel metrò – e scenografiche – Una storia americana, Due o tre cose che so di lei e Weekend, da cui estrae e capovolge (di senso e nel senso di marcia) il famoso piano sequenza per la scena iniziale – che al musical americano.

E’ più in sintonia con l’espressività istintiva e la pseudologia fantastica di Dolan e Gondry che non con l’eleganza controllata e l’istrionismo di Minnelli e Donen. Per tale ragione non c’è momento musicale che ponga una distanza tra i personaggi e gli spettatori, ma al contrario ognuno di essi realizza un’intimità complice attraverso i primi piani, i dettagli e i finti sguardi in macchina, dove persino il più futile elemento sonoro funge da contrappunto al comparto visivo. Non solo i pezzi musicali ma anche i suoni hanno una funzione narrativa, come il clacson dell’auto, l’allarme di scena, il rilevatore antifumo. La La Land è un film che racconta il jazz più di quanto non faccia Whiplash, poiché ne rivela i principi di movimento e l’imprevedibilità della direzione, reificando le passioni di due individui che si incontrano, si fondono e poi si separano. Come la vita che raccontiamo a noi stessi e che conserviamo nella memoria, La La Land è un collage di feticci (materiali e astratti) in cui la realtà oggettiva non sembra esistere. Il presente, in questo racconto, non ha spazio, e se ce l’ha è nascosto in quell’ellissi annunciata da “cinque anni dopo” e in quei brevi istanti prima di rituffarsi nel sogno condiviso che è quello straziante what if conclusivo.

Quando Mia/Emma Stone entra nel locale di Sebastian/Ryan Gosling, dove si aggira come in un museo di ricordi e di sogni realizzati in cui – solo lei e noi sappiamo – uno sgabello non è solo uno sgabello e un’insegna non è solo un’insegna, essa accede a quello che è un autentico luogo dell’anima (di Sebastian) che la sottrae di nuovo alla realtà come il tornado de Il Mago di Oz. In quest’ottica tutto il film può essere percepito come un lungo flashback, un passato falsato dalla nostalgia seguito, dopo la pausa di un lustro invisibile, da un sogno falsato da desideri mancati – questo sì, il vero musical – di cui il presente è una parte noiosa che non vale nemmeno la pena raccontare, poiché non è ancora una folle, intensa e fugace suggestione.

Le repliche sono terminate.