Rogue One: la storia finita

rogueone1Tra i plot più sfruttati e, ormai, più prevedibili della storia del cinema si può tranquillamente annoverare quello de I Sette Samurai (Akira Kurosawa, 1954), riassumibile pressappoco così: un gruppo di persone unito e ordinario, con poche possibilità di successo, recluta una manciata di individui stra-ordinari per far fronte agli squilibri incorsi all’interno del loro ecosistema. Si tratta di un plot estremamente efficace in termini narrativi, un po’ perché schiacciando la normalità sullo sfondo esalta le doti di personaggi particolari che agiscono al di là delle convenzioni sociali, il che ne garantisce lo status di divinità. Un po’ perché quel loro essere speciali, pur viziato da un’instabile e spesso discutibile (dis)umanità, è sempre posto al servizio di un bene più grande, quello sì perfettamente legittimo e moralmente apprezzabile. Sulla carta una storia a prova di bomba, capace di riscuotere successo a ogni esecuzione – I magnifici sette (John Sturges, 1960), Colpo Grosso (Lewis Milestone, 1960), I Cannoni di Navarone (John Lee Thompson, 1961), Quella Sporca Dozzina (Robert Aldrich, 1967). In pratica, però, sensibile a imprescindibili fluttuazioni culturali che, sempre più spesso, ne condizionano l’efficacia – dalle rivisitazioni più raffinate come quella di Ocean’s Eleven (Steven Soderbergh, 2001) si passa facilmente agli esperimenti risibili come il recente Suicide Squad (David Ayer, 2016). Insomma, più la storia è riciclata, più lo script sembra avere bisogno di adeguata manutenzione, anche quando si tenta la via del più aderente remake – vedi il conforme eppur inutile I Magnifici 7 (Antoine Fuqua, 2016).

rogueone2Una distinzione è però d’obbligo. Mentre il plot appare più epico quando si inscrive in una vicenda one shot, ossia quando il successo della missione è determinato (anche) dalla dipartita di alcuni o tutti i protagonisti e quindi volge al tragico epilogo, altre soluzioni sembrano produrre fenomeni di stereotipia, tollerabili solo in certo cinema di genere (commedia, avventura, azione). Se nel primo caso gli sceneggiatori devono adoperarsi affinché ogni elemento della narrazione sia ben articolato e definito, in maniera che tale struttura, peraltro circoscritta, sia priva di lacune e risulti coesa e plausibile, una descrizione più sommaria, sensibile a schematizzazioni, è consigliabile solo quando si opta per l’happy ending o sono in previsione uno o più sequel, che rimandano l’ultimazione altrove o ad altro momento (d’altra parte il dramma richiede più urgenza e gravità della commedia).

rogueone3Lo deve saper bene la Walt Disney che, nell’organizzare Rogue One (Gareth Edwards, 2016) il primo spin-off della saga più celebre di tutti i tempi, si serve di quello stesso plot in maniera piuttosto interessante. Se l’intento è, infatti, quello di espandere ulteriormente l’universo di Star Wars, il cui high concept risulta ormai chiaro e definito, altrettanto auspicabile sembra dover preservare il filone principale. Nel suo aprirsi e chiudersi sul raccordo con l’Episodio IV, Rogue One rappresenta un accesso cieco che trae forza narrativa dalla coerenza e dalla compostezza. Per far sì che la storia principale (Star Wars) resti grande, le piccole storie (Star Wars Anthology) devono mantenere un peso aneddotico. Rogue One difende quella grandezza mantenendo un profilo bassissimo, non solo deviando dal colossale impianto comico-avventuroso della saga matrice e accostandosi, come I Sette Samurai, al più realistico film storico, ma riponendo la ragione e il peso della sua esistenza unicamente sul (prevedibile) successo della missione dei sei – Jyn Erso/Felicity Jones, Cassian Andor/Diego Luna, Chirrut Imwe/Donnie Yen, Baze Malbus/Jiang Wen, Riz Ahmed/Bodhi Rooke e il droide K-2SO – e sul suo (imprevedibile) mesto epilogo. E questo è senz’altro il maggior pregio di Rogue One.

rogueone4Tuttavia la trovata, seppur vincente, rivela i suoi limiti nella fase più stringente della sceneggiatura, sia nell’eviscerazione dei personaggi che – a esclusione di Jyn – demanda ogni descrizione a un impianto dialogico fiacco e banale, sia nell’articolazione di un racconto sprovvisto di plot point riconoscibili e ad effetto e cadenzato da ingiustificate e inefficaci gag che ne inficiano completamente il ritmo. Il risultato è una cronaca informe e monotona, spogliata della sua epicità, comunicata da una regia ordinaria che, nonostante i numerosi momenti dedicati all’azione, riesce a mettere in risalto solo i richiami fanservice e i trucchi in CGI – l’apparizione di Leila è pleonastica e irritante. Nell’accostarsi al plot de I Sette Samurai, Rogue One commette l’errore di trarre dalle varianti comedy le modalità di presentazione di eventi ed esistenti, offrendone perciò una descrizione sommaria e stereotipata, realizzando al contempo un allestimento compassato e lineare in cui non si riesce mai a trovare il bandolo del coinvolgimento, se non alla fine, nell’accecante bagliore della morte (nera).

Le repliche sono terminate.