The Shape of Water: il buco nell’acqua

A guardarlo da una distanza di sicurezza – senza cioè lasciarsi incantare dalla magniloquenza visiva – La Forma dell’Acqua (The Shape of Water, Guillermo del Toro, 2017), premiato come miglior film alla 90esima edizione degli Academy Awards, sembrerebbe un prodotto fatto apposta per la sciccosa assegnazione degli Oscar, un collage di strategie di marketing realizzato per andare in contro alle richieste di un pubblico tanto esigente (in termini di novità) quanto abitudinario e bisognoso di ritrovare i piaceri già vissuti, nostalgie vicine e lontane, input per bearsi della propria sensibilità culturale. La Forma dell’Acqua, dalla sua digeribilissima trama ai suoi basilari costrutti metaforici, sembra riproporre molto meccanicamente tutto ciò che, l’anno scorso, i pubblici hanno dimostrato di aver assimilato con certa soddisfazione: dal musical (La La Land) alla celebrazione della diversità (Moonlight), dall’eroismo dell’outsider (La Battaglia di Hawksaw Ridge) alla fantascienza che riflette – o tenta di farlo – sul connubio linguaggio/umanità (Arrival). Fortunatamente ci è stato risparmiato il masochismo luttuoso di Manchester by the Sea, sebbene la “piccola morte” all’interno del film rappresenti quanto di più kitsch si sia visto da quando il cinema ha cominciato a mettere in scena i rapporti interspecie.

Per quanto estremamente ruffiano, tuttavia, La Forma dell’Acqua non mostra sommaria debolezza nel momento in cui tradisce la banalità dei suoi riferimenti e dei suoi intenti, bensì quando rinuncia a ricondurli a una narrazione onesta, una fiaba – poiché altro non è – autenticamente naif e scevra da certe forzature semiotiche che mal si sposano sia con il naturale sviluppo di una storia semplice – qui del tutto castrata e castrante – sia con l’organizzazione affettiva realizzata da eventi e personaggi. Tale manchevolezza si riscontra specialmente nella struttura della sceneggiatura che, accostando tre storyline (quella relativa alla protagonista e al vicino di casa, quella che vede interagire la protagonista e la collega e quella dell’antagonista), sceglie di alternarle introducendo ellissi troppo ampie. Il risultato è quello di una carrellata di siparietti divertenti ma molto circoscritti, incapaci di comunicare gli uni con gli altri, in cui vengono a mancare fluidità e respiro, sia nelle singole parti, sia nell’intero racconto. La scelta, poi, di relegare tutte le sequenze (o quasi) in interni piuttosto angusti, altro non fa che accentuare caratteri di rottura e isolamento, uno sfaldamento del tessuto narrativo che non riesce così a rafforzare i legami tra gli esistenti e a far funzionare davvero la sottotrama thriller (la ricorrenza dei colori e di alcuni elementi di scena non può sopperire alla totale mancanza di un’architettura strutturale).

Infine, l’assenza di una storyline dedicata alla creatura, qui semplicemente figura comprimaria, sembra andare nella direzione opposta rispetto a quella – chiaramente auspicata – di imperniare l’intera vicenda sul rapporto instauratosi tra la protagonista e l’uomo anfibio rendendo sempre più stabili e amplificate le dinamiche di relazione che, purtroppo, qui si riducono a un ripetuto scambio di uova, un buffo amplesso, una danza sognante e un epilogo melodrammatico, mentre in mezzo non succede assolutamente nulla di rilevante. Come si passi dalla situazione iniziale in cui un essere umano prova ad aiutare un “randagio” imprigionato alla relazione sentimentale tra due esseri senzienti e consenzienti non è dato saperlo e si può solo immaginarlo, ma per chi, come me, ha sempre avuto una certa avversione per la zoofilia, il divario resta troppo ampio per essere tranquillamente attraversato… Come esprime perfettamente la sequenza della danza tra le luci – citazione del recente La La Land (Damien Chazelle, 2016) che, a sua volta, cita il meno recente Balla con Me (Norman Taurog, 1940) – l’affinità elettiva e romantica rappresenta qui una proiezione unilaterale, quella della protagonista che, nei suoi sogni, cova il desiderio di umanizzare il suo cavaliere e di coronare il sogno d’amore con lui. Ancora, che cosa ne pensi lui – sempre che pensi – non è dato saperlo.

Di tali frizioni era certamente ben cosciente il regista de Il mostro della Laguna Nera (Creature from the Black Lagoon, Jack Arnold, 1954), film-ispirazione de La Forma dell’Acqua che, nell’allestire la fascinazione di Gill-man per la bellissima Key, non mancava mai di far riferimento all’incontro/scontro tra la curiosità istintuale della creatura e il timore (prima) e la compassione (poi) della donna da esso rapita. Nel presentarci questi due personaggi così diversi, Arnold non si è strenuamente precluso un ammiccamento al romantico e a certa complicità, tuttavia non si è mai sognato di spingere nessuno dei due a fare un passo verso l’altro, a compiere un balzo evolutivo così enorme, per giunta in risicati 80 minuti a regime di unità aristoteliche. Del Toro, invece, non si fa alcuno scrupolo a fare quel salto, a concretizzare la liaison in fretta e furia, screditando non solo l’elemento portante della storia, quello da cui dipende la credibilità di un contesto piuttosto trito e rarefatto, ma anche l’aspetto più interessante dell’intera vicenda, ossia lo sviluppo di un complicato sentimento amoroso. Il ricorso a certe trovate cinefile (omaggi e citazioni), che per la loro evidente natura decorativo-riempitiva più che complementare tendono a evidenziare la vacuità dell’intreccio, ha per di più reso sterile ogni soluzione di montaggio tesa a stimolare affezione e coinvolgimento per quello che, in fin dei conti, resta un film che fa acqua da tutte le parti…

Le repliche sono terminate.