C’é sempre una (prima) volta: The Visit

thevisit1Le fiabe raccontate al cinema non mi allettano. Trovo che i film dedicati loro tendano ad appiattire quel clima suggestivo, in equilibrio tra il reale e il fantastico, il ridicolo e il torbido,  il pauroso e l’eccitante, emanato dalle allegorie fiabesche. Le fiabe oscillano tra ossimori che mai si escludono, ma che coesistono, restando vaghe non solo sulle loro atmosfere, ma anche sulle conclusioni, mentre i film a esse ispirati pendono sempre da una parte, fino a quando non adottano dichiaratamente un punto di vista risolvendo le loro ambiguità (nel bene o nel male). Tutti tranne quelli di M. Night Shyamalan.

Il regista indiano, la cui più invidiabile abilità risiede proprio nella conoscenza e manipolazione degli archetipi narrativi e dell’allestimento degli scenari più adatti a ospitarli, ha la buona abitudine di raccontare storie dando loro un taglio fiabesco che, intaccando la solidità dei generi di appartenenza, trasforma i suoi film in oggetti pericolosamente instabili. Personalmente trovo che sia proprio quell’instabilità a rendere imprevedibili – e quindi coinvolgenti – i suoi twist ending, così come trovo che siano le “anomalie” di genere a dare spazio a eventualità altrimenti impraticabili. E, infatti, oggi Shyamalan può permettersi qualsiasi tipo di eccesso nel plot senza  che questo possa mettere a rischio la plausibilità. Lady in the Water (2006), che sembra sfidare tutti i principi della narrazione, in un continuo rilancio di evoluzioni e ribaltamenti, resta fino all’epilogo avvincente e credibile.

thevisit2Per destreggiarsi nel fitto sottobosco di figure e significati sfuggenti, Shyamalan impiega la sua straordinaria sensibilità cinematografica, fatta di padronanza linguistica ed estetica, per manovrare la ricezione dello spettatore guidandolo su un sentiero che non è testuale, ma metatestuale. E’ l’idea filosofica e non narrativa il punto fermo di Shyamalan e sembra partire da questa per modellare i suoi racconti. Ed è forse in tal modo che riesce a rendere l’intreccio efficace – che spesso culmina nel noto twist ending – e i luoghi e i personaggi autenticamente misteriosi, dei quali Il Sesto Senso (1999) rappresenta l’esempio più rigoroso. Perciò la fiaba, con il suo zoccolo duro di dilemmi morali e allegorici, ben si presta alla sua indole narrativa. Senza contare che, trattandosi di film per adulti, le fiabe di Shyamalan possono in più confrontarsi con le spaventose fatalità (Signs), i segnali di decadenza (After Earth, The Happening) e lo spietato cinismo (The Village) che caratterizzano la realtà attuale. E anche se, a volte, sono solo suggeriti o rimandati oltre i titoli di coda, i pericoli restano incombenti, incidendo sui finali che appaiono sempre piuttosto amari…

thevisit3Come si pone il recente The Visit (2015) rispetto al discorso? Con il suo ultimo film Shyamalan si cimenta con una fiaba standard, una sorta di Hansel e Gretel ai giorni nostri. Sulle prime la vicenda sembra piuttosto semplice e lineare. Tuttavia, in The Visit, ci si trova di fronte a una prima importante novità nella filmografia del regista: il film è un mockumentary in corsa, realizzato attraverso una videocamera e altri strumenti di ripresa (pc, smartphone) dai due giovani protagonisti. Il mockumentary – a meno che non si tratti di un escamotage narrativo limitato o di natura asincronica come il found footage – può rappresentare un grosso ostacolo alla varietà dell’intreccio. Funziona perfettamente, per esempio, con il torture porn, per via dell’importanza della soggettiva, della prossimità visiva e dell’esiguità della trama, ma può creare qualche problema a chi, come Shyamalan, costruisce i suoi film a partire da concetti astratti che hanno bisogno sia di un “respiro” spaziale e temporale, sia di una costruzione sintattica articolata. Qui l’obiettivo, sia fisso sia in movimento, restituisce perfettamente il senso di inquietudine, smarrimento e claustrofobia provato dai due ragazzini, ma purtroppo contribuisce anche a creare diversi tempi morti, alcuni piuttosto lunghi. In genere Shyamalan supplisce ai momenti leganti e alle scene di dialogo facendo “parlare” la macchina da presa. E’ in queste circostanze che, spesso, si rivelano i punti chiave del discorso metatestuale. La macchina si muove, indaga, indugia, si allontana dal testo, crea atmosfera, comunica con lo spettatore alle spalle dei personaggi. In The Visit tutto questo non avviene quasi mai, perché la macchina perde la sua “autonomia” espressiva. La soluzione adottata è quella di demandare tutto alle possibilità comunicative dei personaggi (interviste e autoriprese) attraverso le quali far trapelare le verità oltre le apparenze. Funziona? Poco. Insomma, a mancare è la Grande Narrazione in grado di contestualizzare la piccola narrazione, che qui diventa piccolissima, trasformando The Visit in una sorta di B-movie. Non si tratta di un difetto, e anzi, probabilmente chi non ama gli slanci esistenziali alla Shyamalan si troverà ad apprezzare questo film molto più dei precedenti. Quelli che, invece, avranno sofferto qualche mancanza, potranno comunque godere delle strabilianti trovate visive che, in questo film, offrono un’interessante riflessione sulla fiaba e sul suo potere di suggestione. thevisit4Se nella fiaba viene raccontata una storia di finzione per tramandare una verità (trascendente), in The Visit sembra verificarsi l’esatto contrario. Attraverso i mezzi di comunicazione diegetici e la narrazione documentaria si tenta di raccontare una verità che, però, supporta una finzione (trascendente). L’occhio della macchina, schiavo dei soggetti che lo possiedono e lo manovrano, non riesce a svelare il bluff, eluso da un movimento che non può essere seguito o addirittura “cecato” con l’impasto dei biscotti. In questo gioco di sguardi – sempre soggettivi e coscienti – tra obiettivi e personaggi, la realtà tenta di manifestarsi non attraverso ciò che si vede, ma attraverso le modalità in cui la visione viene impedita, attivando una bruciante curiosità (“Ma che c’è nella baracca?!”) e una suspense davvero efficace. E’ solo quando l’occhio della macchina smette di essere usato come estensione di un soggetto e osteggiato da una conoscenza parziale che può finalmente rivelare lo stato delle cose e trasformare quella finzione – una volta risolta e superata – in una metafora sull’interpretazione errata delle esperienze, degli affetti e, soprattutto, delle paure.

Le repliche sono terminate.