C’era una volta a… Hollywood, ovvero il viale del tramonto all’alba

Sgombriamo subito il campo da equivoci: C’era una volta a… Hollywood (Q. Tarantino, 2019) non è né un brutto film né, tantomeno, un film insignificante. Nella varia, seppur misurata, filmografia di Tarantino si inserisce, però, come la versione provvisoria di un racconto sulla carta brillante mentre, sullo schermo, appare opacizzato da una mancanza di finalismo che si riflette in una sceneggiatura tagliata con l’accetta e ricucita da un macro-montaggio meccanico e poco incisivo. L’operazione, certamente non nuova, di proporre una (ri)lettura critica (di un preciso momento) della Storia e del cinema, che ben si presta alla mano di Tarantino essendo un’operazione squisitamente autoriale e non semplicemente espositiva, più legata alle forme che non ai contenuti, finisce per restare imbrigliata nelle maglie di una narrazione modesta, sconnessa, poco ispirata e, di sicuro, meno espressiva di quanto esigesse la materia.

Tarantino, forse nel momento meno opportuno, depone le armi stilistiche per raccontarci una storia che conosciamo bene recuperandone tutte “le parti noiose” – per citare una massima hitchcockiana – rinunciando così a far dialogare il Cinema con la Storia e preferendo raccontare una storia con il cinema, che è tanto apprezzabile quanto deludente, soprattutto se a farlo è proprio Mr. Tarantino. Non solo, le vicende che ci racconta non sembrano essere nemmeno custodi di informazioni altre, referenziali rispetto al tema affrontato, ma restano perlopiù incapsulate e (ir)risolte nel personaggio che le incarna. Sì, Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) è un attore di mezz’età che deve fare i conti con il suo declino divistico, artistico e umano, ma è senz’altro DiCaprio a definirlo con il bagaglio esperienziale e di capacità che gli sono propri, un mostro di bravura in grado di esprimere del personaggio tutto quello che la scrittura e il camera-script, da soli, non rivelano mai. E sì, Cliff Booth (Brad Pitt) è la controfigura oscura del divismo – come il ritratto di Dorian Gray – un’ombra che si nutre delle ansie e dei fallimenti di un mestiere e un ruolo destinati a scivolare nel dimenticatoio – in nuce lo Stuntman Mike di Death Proof – ma lo si preferisce osservare mentre cazzeggia per le strade losangeline. E poi ci sono i divi, quelli in ascesa, inavvicinabili, autentici (in tutti i sensi), Roman Polanski (Rafal Zawierucha) e Sharon Tate (Margot Robbie), che non hanno bisogno di presentazioni o scene madri, il cui ruolo non dev’essere giustificato da una presenza fisico-scenica, ma basta che siano a malapena nominati, sentiti o mostrati per interposto schermo per tracciarne la storyline. Tre comparti narrativi, tre storie supportate da tre volti noti della contemporaneità, ognuno con il proprio background (professionale) e la propria parte (da copione), che non collidono mai, che non possono collaborare a un ritratto corale e ambientale, confezionando quello zeitgeist che si vorrebbe evocare (nonostante la maniacale ricostruzione storica). Infine – e di conseguenza – a mancare è un’urgenza, che dovrebbe esprimersi attraverso il climax narrativo, in grado non solo di giustificare il peso delle storyline e dei personaggi nell’economia globale del racconto, ma anche il ricorso al passato, a quel momento particolare del passato che – come ormai sappiamo – tutto è fuorché un recupero filologico. Il finale, insomma, ci suggerisce che realtà e finzione non si incontrano mai, se non in sogno, se non al di là dello stato di coscienza, se non nell’aldilà, dove non è possibile rincorrerli e osservarli. Tutto affascinante, tutto poetico, ma centosessanta minuti di (graziose) gag e (simpatici) omaggi non servono ad avvalorare la causa.

C’è un motivo se ne Il Viale del Tramonto – che rappresenta il punto di vista Billy Wilder sulla crisi ciclica che investe Hollywood e il ricambio dello star system – l’incipit sia introdotto da un cadavere in piscina che, attraverso un lungo flashback, espone in fatti che l’hanno portato a quella dipartita. Egli può testimoniare l’incontro tra verità e finzione senza le menzogne e i tradimenti che avevano caratterizzato la sua vita e quelle di coloro che ne avevano fatto parte, e non possiamo che dargli credito. In C’era una volta a… Hollywood una parvenza di rivelazione arriva in coda al film, dopo un’ellissi/inserto di sei mesi – proprio come il viaggio a ritroso ne Il Viale del Tramonto – grazie soprattutto alla comparsa della voce narrante del protagonista. Non vediamo Rick galleggiare a faccia in giù nella piscina di casa sua, ma il sospetto che sia passato a miglior vita rende quel finale fiacco e consolatorio un po’ più severo (ma giusto), un po’ più accettabile, un po’ più sensato. Che comunque non basta, che arriva troppo tardi – dopo una caterva di inutilità – che non arriva (a tutti). Dalton parla attraverso un citofono con Sharon Tate, finalmente è invitato a varcare la soglia dell’Olimpo hollywoodiano, ma soprattutto può conoscere la realtà, quella in cui “qualcuno è morto” (cit.). In cui qualcosa è morto. O forse è vivo e vegeto, a dispetto di tutto e tutti.

Le repliche sono terminate.