Irrational Man, o il cinecomic di Woody Allen

A leggere il curioso titolo dell’ultimo film di Woody Allen ci si potrebbe porre qualche domanda circa l’identità del protagonista e speculare sulle ragioni e le conseguenze della sua annunciata irrazionalità. Tuttavia, ciò che probabilmente si tenderebbe a scavalcare è un primo e importante suggerimento sul film e sulla sua natura narrativa. Con Irrational Man (2015), infatti, Woody Allen non sembra voler raccontare la storia di un uomo irrazionale, descriverne la psicologia e le vicissitudini contemplando – come di consueto – l’alchimia tra fato e libero arbitrio, ironizzando sugli effetti tragicomici dell’esistenza, ma sceglie di etichettare il protagonista come “L’uomo irrazionale” servendosi non di un attributo, bensì un’espressione simbolica. Al pari degli straordinari SuperMan, BatMan, SpiderMan & company, quella locuzione assegna ad Abe Lucas (Joaquin Phoenix) una chiara connotazione preliminare: Abe è una sorta di supereroe e Irrational Man è, a tutti gli effetti, il cinecomic di Woody Allen.

Nella storia cinematografica recente, gli approcci (per così dire) “trasversali” alle vicende e alle figure dei supereroi hanno prodotto argomentazioni stimolanti quanto più hanno spostato l’attenzione sugli aspetti ordinari della difformità. Uno degli esempi più incisivi è senz’altro Birdman (Alejandro González Iñárritu, 2014), ma non si possono tralasciare gli altrettanto originali Chronicle (Josh Trank, 2012), Super (James Gunn, 2010) e Unbreakable (M. Night Shyamalan, 2000), che hanno offerto interessanti variazioni sul tema. Nel caso di Irrational Man Woody Allen ha scelto – in maniera simile ma ancor più radicale di Iñárritu – di rimuovere l’assetto “straordinario” del supereroe ricusando l’estetica di genere e integrando, nell’allestire l’universo in oggetto, soluzioni personali e scenari della quotidianità. Perciò, per quanto singolare, Irrational Man è anche il solito e solido prodotto alleniano. Di diverso c’è che, rispetto alla tradizionale messinscena, qui – e proprio come nei tanti film dedicati ai supereroi – la vicenda narrata sembra spogliata dei referenti reali ed è confezionata come se non ci fosse un prima, un trascorso, un contesto spaziotemporale.

Tutto ha inizio nei pressi di Newport, una cittadina del Rhode Island che pare risvegliarsi da uno stato letargico proprio con l’arrivo di Abe Lucas, professore di filosofia assunto al Brailyn college. Si comincia da una generale inazione e da una caricaturale situazione di stallo che interessa sia Abe, afflitto da una profonda depressione, sia gli abitanti che conducono le loro vite per inerzia, accettando di buon grado la comune mediocrità. L’arrivo del professore pare riaccendere, come d’incanto, la curiosità, la coscienza e l’istinto di molti, colpendo in particolar modo la giovane studentessa Jill (Emma Stone) che impara presto a conoscerlo, ad amarlo e a “smascherarlo”. Mentre la depressione di Abe continua a peggiorare, acuita dalla sempre più evidente incapacità di agire e reagire, un pomeriggio egli scopre che le sue conoscenze accademiche, che lo hanno temprato in quanto uomo razionale (e coscientemente impotente), possono in realtà aiutarlo a emanciparsi dalla morale comune e a giustificare opportuni reati nell’ottica di una più nobile giustizia universale. Dal grande potere (della conoscenza) derivano grandi responsabilità! E’ così che il gesto estremo di Abe – privato, ponderato e sofferto come nella tradizione di ogni (cine)comic – provocherà uno scossone, sia nella comunità sia nell’individuo, facendogli riscoprire il senso (e i piaceri) dell’esistenza. Se il classico supereroe, nella fase di sperimentazione e controllo del potere, statuisce la sua esclusività e la sua morale, Abe Lucas, ripercorrendo le astrazioni filosofiche e provando a ricondurle all’utilità, si trasforma in un Irrational Man, un uomo  capace di mettere la sua irrazionalità a servizio del prossimo.

La genialità di Allen, allora, risiede nell’atto di affrontare, in maniera quasi impercettibile, un genere ormai abusato e lontano dalle sue corde senza tradire la peculiare indole creativa e restando pressoché uguale a se stesso, scansando i grandi assolutismi etici della narrazione legata ai supereroi e dedicandosi alle meno “eccitanti” dissertazioni filosofiche, alle nevrosi di personaggi comuni e alle rigide strutture della società borghese. Non solo. Il vero tocco di classe lo assesta nel momento in cui – probabilmente riflettendo sulla possibilità di introdurre un villain efficace – sceglie di assegnare ad Abe il compito più ingrato: quello di impersonare anche la sua nemesi. In un universo così eccentrico ma realistico, in cui colui che agisce non è mai dispensato da ripercussioni,  il villain non può che essere lo stesso Abe che, non potendo assurgere alla figura di mero eroe, finisce per pagare il prezzo della sua corruttibile umanità, del suo essere proprio come tutti gli altri, pur avendo bramato di poter essere unico, giusto e invincibile. A Jill/Gwen Stacy non resta altro che imparare la lezione (che poi è quella che Abe avrebbe dovuto impartirle) e tornare alla banale ma sicura normalità.

Le repliche sono terminate.