Mad Max: Fury Road movie

madmax1Uscito da pochissimo tempo, eppur già punto di riferimento imprescindibile per cinefili impenitenti, hipster dell’ultim’ora e tamarri di vecchia data, Mad Max: Fury Road (George Miller, 2015) ha saputo stipulare con i propri spettatori un patto che non sembrava praticabile: promettere novità in cambio di disponibilità, azione in cambio di attenzione e riflessione in cambio di divertimento. Che Miller sia riuscito in questa complessa transazione è certamente merito della sua esperienza di filmmaker; come ci sia riuscito senza piegarsi a nessun compromesso, invece, resta un po’ un mistero. L’opera di convincimento, esercitata attraverso il potere seduttivo delle immagini, ha finito per svanire dietro l’attendibilità di un mondo allestito con cura maniacale, annientando ogni sospetto di adescamento indebito. Mad Max: Fury Road è folle, ma non tanto da spaventare. E’ incredibile, ma non tanto da tenere a distanza. E infine è superficiale, ma non tanto da impedire una completa immersione. Il film di Miller, insomma, non è il film che tutti avrebbero voluto vedere (o che si sarebbero aspettati di vedere), ma è qualcosa al quale, fin dalla prima inquadratura, vogliamo credere perché esso stesso sembra credere in quello che, fotogramma dopo fotogramma, crea e distrugge a una velocità che non lascia il tempo di sottrarsi.

Provare a circoscrivere i procedimenti impiegati da Miller nella realizzazione di Mad Max sarebbe piuttosto complesso, ma alcune delle scelte adottate per allestire lo spettacolo offerto dal film sono abbastanza evidenti da poterle riportare “su carta”.

madmax2Intanto, e anticipatamente, è possibile osservare che Miller arricchisce il piacere della visione attingendo non solo – come molti altri prima di lui – a una nutrita antologia di figure istituite dalle più disparate cinematografie mondiali, allestendo l’ormai tradizionale pastiche ipertestuale (s)personalizzato, ma opta per il recupero di intere cosmologie cinematografiche, e con esse i loro delicati meccanismi (di tempo, di spazio e di “gravità”), integrandole senza tradirne lo spirito e, perdipiù, riuscendo nel passaggio più ingrato del lavoro di ricomposizione – e attualmente conseguito con interessanti risultati da Quentin Tarantino e pochi altri – ossia il collaudo della coerenza (narrativa, estetica e filosofica). Oltre alle soluzioni mutuate dagli anni Ottanta – impossibile non riconoscere, aldilà delle marche autoreferenziali, la spavalderia espressiva e l’estetica trucida de I Guerrieri della Notte (1979) e Fuga da New York (1981) – e dagli anni Novanta – altrettanto evidenti sono i rinvii al western ultracrepuscolare Gli Spietati (Clint Eastwood, 1992) – Mad Max: Fury Road non disdegna le più recenti degenerazioni iperrealistiche – lo Zack Snyder di 300 (2007) e Sucker Punch (2011) sembra il creditore più attendibile. Ne esce un prodotto non solo squisitamente citazionistico, in cui il racconto futuristico si limita a esporre statici e barocchi manufatti del passato, bensì strutturalmente assemblato da  autentici e obsoleti ingranaggi che, seppur corrotti dal tempo, finiscono per assolvere la loro funzione quando subiscono la forza esterna della spinta, o quando il terreno su cui poggiano cambia inclinazione. Quella forza e quell’inclinazione rappresentano il collaudo, ciò che con tanta abilità Miller applica e controlla. Così gli oggetti e i personaggi non paiono agire per volontà propria, non si muovono a causa delle loro intrinseche capacità, ma sembrano piuttosto subire continue e incessanti sollecitazioni esterne. Ogni cosa, dalle vetture agli esseri umani, è sacrificabile e quindi lanciata, urtata, schiacciata, rilanciata ancora e senza indugi. Proiettate verso il futuro, a bordo di macchine e corpi deteriorati malamente accomodati, le ambizioni si dirigono vertiginosamente e casualmente in tutte le direzioni. Il risultato non può che essere un on the road senza meta, andata e ritorno, il cui senso del tragitto è la mera resistenza all’ineluttabile logorio. Vince chi resiste, non chi raggiunge qualcuno, qualche luogo o qualche deriva dell’anima. madmax3Di conseguenza, e inevitabilmente, tutto si riduce all’effetto estetico, ma non senza una precisa coscienza d’impiego. Miller estetizza ogni aspetto della narrazione: dalle scelte di campo piegate alla sola ragione fotografica, pienissime e dettagliate nei piani più “corti” e man mano svuotate in quelli più lunghi, come per segnalare la desolazione della distanza (e della speranza, come sottolinea a un certo punto Max Rockatansky) perchè tutto ciò di cui si ha bisogno è a portata di mano e di vista; passando per un montaggio in cui viene privilegiato solo l’effetto finale di ogni movimento (ma non la causa e il processo), in cui la selezione e/o l’accelerazione del girato sembra salvare solo le code delle azioni, semplificate e caricaturali, mentre il passaggio fra una sequenza e l’altra viene gestito da rapidi dolly in corsa, mantenendo una visione fluida e coesa della generale frammentazione; fino ai concetti e le tematiche, strumentalizzati, resi visibili e tangibili, e infine buttati nel mucchio: volanti d’ossa portatili, polene umane, cinture di castità dentate, grasso da investitura, tumori con le faccine, museruole per muti, flebo detentive, chitarre lanciafiamme, vernice spry per kamikaze… Tutte, peraltro, riproposte in quella straordinaria sequenza in cui, dopo una brusca frenata, finiscono per riversarsi sullo schermo-vetrina proprio di fronte ai nostri occhi. La colonna sonora, composta da ritmi tribali e variazioni rock,  non fa eccezione. Suonata da un gruppo di musicisti alienati a bordo di un veicolo dotato di tamburi e chitarre – un’autentica “rock opera mobile” – interviene a livello diegetico, e secondo il medesimo afflato iconico, con una potenza audiovisiva senza precedenti.

Nonostante la naturale confusione tra citato e ideato, tra ipertestuale e superficiale, tra sporcizia patinata e autentica patina di sporco, tutto pare saturare lo sguardo, ma per orientarsi basta dar retta a quello che urla: “Ammiratemi!”

Le repliche sono terminate.