Me and Earl and the dying girl…and me

meandearl1Quando decide di realizzare un film, il regista indipendente sa che il suo capitale di rischio sarà meno cospicuo di quello a disposizione del regista mainstream. Tuttavia, nel duro confronto con il mercato, sarà il regista indipendente a fare la scommessa più azzardata. Questo perché il suo prodotto avrà meno possibilità di essere fruito nei circuiti a pagamento e quindi incontrerà maggiori difficoltà nel generare introiti (quando va bene) o a coprire le spese (quando va male). D’altro canto il regista indipendente vanterà una libertà che il regista di blockbuster non possiederà mai, ossia la possibilità di “investire” maggior capitale culturale, osando di più sulle scelte compositive del film. Dalle sceneggiature avviluppate e irrisolte, alle soluzioni estetiche più inusuali e stravaganti, fino alla selezione di un cast poco noto ma caratterizzante, le sperimentazioni per realizzare un prodotto originale e personale saranno pressoché infinite e tutte accettabili, specie quando il regista sarà anche sceneggiatore, soggettista, operatore, montatore e produttore. Meno soldi significherà più sacrifici, ma anche più autonomia.  E’ un bene? Non sempre.

meandearl2Se, per dire, qualcuno avesse offerto, in maniera disinteressata e gratuita, le proprie competenze e i propri suggerimenti al regista del recentissimo Me and Earl and the dying girl (Alfonso Gomez-Rejon, 2015) il film ne avrebbe sicuramente giovato. Me and Earl and the dying girl, infatti, mostra troppi impacci per risultare davvero fluido, davvero interessante, davvero toccante come (forse) il suo autore avrebbe auspicato. Il pubblico pare averlo promosso sulla base di alcune sempre gradite ruffianerie quali: la dolorosa vicenda trattata, il variegato impianto citazionistico – che spazia dalle battute verbali, passando per i riferimenti materiali (fotografie, film, loghi), fino alla varia e scrupolosa messa in scena – e, non ultimo, il finale fair play (più apprezzato dell’abusato happy ending). Tuttavia, osservando nel dettaglio alcune scelte adottate, non si può non rilevare una certa incoerenza che interessa il tema, la narrazione, lo stile e, cosa più irritante, l’etica creativa.

meandearl3Nel film non solo non è mai chiaro quale sia il fuoco della storia, che si sposta continuamente tra i comparti stagni “la crescita di Greg”, “la collaborazione/amicizia tra Greg e Earl” e “la malattia di Rachel”, ma non è nemmeno chiara quale tensione si voglia perseguire e risolvere. Se l’intento fosse quello di gestirli in contemporanea e infine allinearli si richiederebbe, quantomeno, una narrazione capace di far confluire le vicende attraverso un unico punto di vista e secondo un climax narrativo uniforme. Non è così. Le storie si evolvono in maniera autonoma e non lineare, talvolta entrano in pausa come fossero semplici intermezzi, mere gag. A peggiorare il dissesto narrativo interviene il macchinoso e manieristico allestimento estetico, i registri si mescolano facendo perdere ulteriormente l’orientamento. Angolazioni e teleobiettivi alla Kubrick, tagli di inquadratura alla Herzog, carrelli e panoramiche alla Wes Anderson, effetti analogici alla Gondry, momenti di macchina continui, virtuosismi eccessivi, confusione sintattica. La conseguenza è un generale smarrimento che produce distacco nei confronti dei personaggi, anch’essi scritti e calati nella scena in maniera discorde. Se Greg oscilla continuamente tra la macchietta da teen movie e l’adolescente imperscrutabile alla Van Sant, che ciondola o vaga sospetto nei lunghi corridoi della high school, Earl è la classica figura bidimensionale ma profondissima – lo scopriamo nello scontro incontro con Greg – sottratta al cinema di di Wes Anderson. Rachel, dal canto suo, non può che essere il personaggio più autentico, perfettamente intagliato e scalfito dalla sua tragica sorte. Nelle sequenze in cui i tre appaiono insieme, tuttavia, la scomposizione e confusione dei registri tende a produrre effetti interessanti di breve durata, una piacevole fatalità in questo resoconto caotico. Ci si annoia parecchio, ogni tanto si ride, a tratti ci si commuove. Eppure, a prescindere dalle debolezze e incertezze compositive, il vero difetto del film è rappresentato dall’invadenza del suo autore, dalla fastidiosa rimodulazione di vicende, personaggi e atmosfere nell’ottica della celebrazione del sé, forzando la credibilità demeandearl4l mondo raccontato, popolato da colti e sensibili adulti imprigionati in giovani corpi inadeguati. E’ questa, forse, la grande ambizione di Alfonso Gomez-Rejon: denunciare l’amarezza di non essere considerati per ciò che si è, o meglio, per ciò che si crede di essere, se non dal solo amico che ti apprezza e che, però, sta per passare a miglior vita…

Le repliche sono terminate.