The Babadook o della metaforia

babadook1Per analizzare e valutare l’efficacia espressiva di The Babadook (Jennifer Kent, 2015) sarebbe possibile imboccare e percorrere diverse vie d’accesso. Dalla rilevazione dei codici cinematografici, passando per lo studio delle formule di rappresentazione, fino all’esame delle strategie narrative e comunicative – secondo una classica ripartizione proposta da Metz – ogni via condurrebbe facilmente al cuore pulsante dell’opera. Personalmente, e per libera associazione, ho scelto di prenderla larga e partire da una parola che (in italiano) non esiste e che ho adottato per l’occasione: metaforia. Per comprendere le ragioni dell’utilizzo del vocabolo può tornare utile osservare l’etimo della parola più prossima, ossia metafora. Il termine metafora è composto da metà- che significa “oltre” e da -phèro che significa “portare”, quindi “portare oltre”, “trasportare”. Metaforia invece, oltre alla radice comune, è composta dalla stessa desinenza di termini come euforia o disforia, ossia -phorìa, un derivato di -phérein che significa “sopportare”. Va da sé che, se esistesse, metaforia significherebbe “oltre la sopportazione”. Ora, il tema sul quale ruota il film The Babadook non solo è proprio la sopportazione, argomento accuratamente allestito e sviluppato, ma anche il suo limite estremo oltre al quale diviene piuttosto difficile controllarsi. Il film è, di fatto, un’allegoria sull’esaurimento fisico e psichico che affligge l’umano, fino a raggiungere spaventose forme di disumanità. Insomma, una metafora sulla metaforia.

babadook2Il film narra la vicenda di Amelia, vedova e madre di un bambino di sei anni, che cerca di tirare avanti nonostante i turni massacranti al lavoro, le difficoltà quotidiane e i capricci del piccolo Samuel. Dopo aver assecondato l’ennesima richiesta del bambino, consentendogli la lettura di un libro sbucato dal nulla intitolato Mister Babadook, la situazione prende una piega alquanto inquietante, minando la salute mentale e fisica di madre e figlio. Si tratta di una storia semplice ed essenziale che forse, sulla carta, non desterebbe particolare interesse. Tuttavia, il ritmo narrativo che la contraddistingue finisce per giocare un ruolo determinante affinché precise sensazioni, previsioni e infine riflessioni possano farsi strada nella testa dello spettatore. Jennifer Kent, che è una regista e una sceneggiatrice dotata di una sensibilità straordinaria, confeziona un horror eclettico in cui la scansione dei plot point, l’orchestrazione delle atmosfere e l’architettura visiva seguono una contrazione costante e inarrestabile fino a  provocare autentici effetti di suggestione e claustrofobia. Se nel flemmatico ma incisivo passaggio iniziale la situazione sembra del tutto gestibile, con qualche circostanza conflittuale cui porre rimedio – in cui Samuel appare, man mano che il film procede, da “mediamente indisciplinato” fino a “pericolosamente borderline” – dopo la prima apparizione del libro l’ottica cambia e il malessere che sembrava affliggere il bambino contagia la donna. A questo punto Samuel perde la sua aura d’inquietudine, trasformandosi nella vittima di una madre sempre più minacciosa. Sul piano visivo tale passaggio è scandito da una rimodulazione della messa in quadro (cambiano gli intervalli di ripresa, i tagli dell’inquadratura, le modalità d’illuminazione) spostando il sospetto da una cosa a un’altra, da un personaggio a un altro, amplificando la suspense. Nel terzo atto, infine, l’esorcizzazione materna attiva un ulteriore passaggio di testimone. L’avvento di Babadook, infatti, attira su di sé la preoccupazione e l’avversione provate fino a quel momento dallo spettatore, liberando i due protagonisti da tutte le accuse pendenti. Improvvisamente, sia Amelia sia Samuel non sembrano più tanto stressati, tanto psicotici, tanto sinistri, al contrario sembrano aver recuperato la loro umanità e la loro ragionevolezza per poter far fronte a qualcosa di autenticamente mostruoso apparso nelle loro vite. Dal dramma familiare, in cui la partita si gioca sull’assegnazione delle colpe, si passa all’horror in piena regola in cui a importare è solo la salvezza. Aldilà del cambio di registro e della trasfigurazione dei ruoli che sono perfettamente in linea con le dinamiche di genere, è interessante osservare che l’intervento dell’entità mostruosa è capace, da sola, di affrancare i due protagonisti dal pesante fardello della realtà, ossia dal fatto che, senza il Babadook, entrambi avrebbero bisogno di un bravo terapeuta. Amelia è, di fatto, una madre esaurita prossima all’infanticidio, mentre Samuel è un Norman Bates in erba. Tuttavia l’introduzione di Babadook, elemento soprannaturale della storia, ha come effetto immediato quello di emancipare i due personaggi da una tragica condizione di partenza, trasformando un bambino palesemente disturbato in “quello che aveva ragione” e una madre pericolosamente stressata in “quella che non ci voleva credere”. Potere del cinema di genere.

babadook3Il graduale ma inesorabile processo che porterà mamma e figlio al delirio per poi fargli recuperare l’integrità e la coesione necessarie per combattere Babadook, è raccontato dalla Kent con molta intelligenza. La presentazione di situazioni conflittuali a distanza sempre più ravvicinata, accompagnati da una fotografia sempre più cupa – in linea con l’entità degli eventi rappresentati in cui, via via, scompaiono i sorrisi, gli sguardi amorevoli e i toni di voce pacati – tende ad accrescere lo stato di tensione generale. In questa fase la Kant fa appello a un certo tipo di cinema in cui il rapporto difficile tra madre e figlio è minato da un qualcosa non precisamente identificato. La scena in cui i due protagonisti sono silenziosamente seduti al tavolo della cucina ricorda molto quella de The Sixth Sense (M. Night Shyamalan, 1999) nella quale, in circostanze simili, Lynn sembra indugiare spaventata sugli strani comportamenti del piccolo Cole. Ma il ricorso alla cinematografia thriller in cui i bambini rivelano un’ambiguità congenita, non per forza soprannaturale, sono piuttosto evidenti e i terrificanti protagonisti de L’Innocenza del diavolo (Joseph Ruben, 1993), Joshua (George Ratliff, 2007) e Orphan (Jaume Collet-Serra, 2009) sembrano essere i riferimenti più attendibili, soprattutto nella misura in cui riescono a mantenere in equilibrio situazioni equivoche nelle quali non si capisce se il male si annidi o meno. Per quanto riguarda il segmento dedicato alla trasformazione della madre, invece, i riferimenti horror appaiono più espliciti. Si va dalle più classiche e strutturate possessioni demoniache – Rosemary’s Baby (Roman Polanski, 1968), L’Esorcista (William Friedkin, 1973) – fino alle nostrane variazioni sul tema – le soluzioni eleganti alla Mario Bava sembrano essere impiegate in più di una circostanza. Paradossalmente, nell’ultimo atto, la Kent fa un ulteriore passo indietro nel tempo e adotta una soluzione in controtendenza. Con l’apparizione di Babadook e la cromia della scena quasi ridotta al bianco e nero, la regista lascia che le fantasmagoriche figure espressioniste prendano il sopravvento, rendendo definitivamente astratto e fiabesco l’orrore, costituito ormai di ombre ed effetti “grafici”. L’orrore esternato, reso estraneo, trasformato in qualcosa di artificioso, ora non sembra più così ingestibile.

babadook4Da una realtà drammatica e rovinosa, alla fantasia più inquietante e bizzarra, Jennifer Kent affronta un viaggio attraverso la facciata, passando per il corpo, dritto fino all’inconscio, per scovare il male che non alberga abitualmente in noi, ma che a ridosso delle paure, della sopportazione e dell’esasperazione, finiamo per lasciar entrare. Fortuna che, in qualche modo, possiamo imparare a conviverci…

Le repliche sono terminate.