The Theory of Everything o la retorica del tutto

theoryofeverything1Con il concetto di retorica, lo sappiamo tutti, si intende l’arte del dire (e dello scrivere) in maniera raffinata ed efficace. La tecnica retorica, corredata da precise regole, ha avuto origine e si è diffusa – soprattutto grazie a Platone – nella Grecia antica ed è stata applicata, attraverso i secoli, in ambiti differenti con il proposito di persuadere i pubblici di riferimento, talvolta ponendo l’accento sugli aspetti estetici del discorso, altre volte tentando di privilegiarne i contenuti. In epoca recente, a causa delle trasformazioni morfologiche e culturali che hanno interessato le lingue e i linguaggi, il termine ‘retorico’ ha assunto un’accezione negativa, andando a connotare tutte quelle forme espressive che, in maniera ostentata, hanno fatto del “bel dire” una questione prioritaria, spesso anche a discapito dei concetti trattati. La retorica ha così finito per coincidere con l’impiego di formalismi ampollosi, la latitanza dei contenuti e lo slittamento della comunicazione a favore di costruzioni tanto enfatiche quanto vacue. Il cinema, in quanto arte recente, si è visto attribuire l’epiteto nella sua versione più sdegnosa, spesso venendo accusato, nell’atto di veicolare storie e idee, di certa piaggeria espressiva. Personalmente ho sempre trovato l’uso di questo termine, specie nelle questioni inerenti al cinema, abbastanza fuorviante e il più delle volte sterile. Certamente, accompagnato da una buona dose di informazioni può, in qualche modo, riferire alcune debolezze del linguaggio cinematografico, ma in genere “da solo” non definisce nulla più di una vaga stortura espressiva.

Osservando la produzione definita spregiativamente retorica, ci si accorge facilmente che l’appellativo tende a non coinvolgere l’audiovisivo tout court, ma precisi aspetti, o meglio, precisi canali. Nello spostarsi dalla lingua (e dalla scrittura) al cinema, l’attributo retorico continua, infatti, a riferirsi a soluzioni compositive che hanno a che vedere con l’apparato (per così dire) letterario del film. I dialoghi, i monologhi, la voce off, le scritte, la descrizione di determinate azioni. Tutto ciò che, in un modo o nell’altro, fa sentire la presenza di un punto di vista concreto e soggettivo, viene percepito con diffidenza e messo in discussione dal fruitore. Per contro, le immagini e la musica, che sono subite e recepite come eventi naturali non riconducibili a precise entità, si tende ad accettarle in maniera più arrendevole. Non a caso le oggettive irreali, estranee e inafferrabili, sono quanto di meno retorico ci sia nel cinema.

theoryofeverything2Dopo aver visto The Theory of Everything (La Teoria del tutto, James Marsh, 2014), sono incappata in parecchie recensioni dedicate al film e, mai come in questo caso, ho visto ricorrere l’attributo ‘retorico’ con tanta veemenza. Una ragione, probabilmente, è di natura intrinseca. Spesso, infatti, i biopic (soprattutto quelli di genere drammatico) si immolano per la causa del protagonista di turno optando per la soluzione ideale quando si hanno tante informazioni da dare e poco spazio per farlo, ossia il classico trattamento didascalico. Parecchie spiegazioni, sviluppo cronologico scandito, poca astrazione e zero rischi. I biopic, nella maggior parte dei casi, offrono uno spettacolo ben “inquadrato”, fortemente patetico, ma spesso convenzionale e piuttosto meccanico e insincero. Sulla carta il film di Marsh non fa eccezione. Il protagonista – dall’invadente e tragica presenza e scenica – è il centro indiscusso della narrazione, la storia è lunga e ricca di eventi e, apparentemente, il film pare non spingersi oltre la narrazione dei fatti. Solo sulla carta però, perché nella pratica il film è uno straordinario esempio di cinema, studiato e realizzato con intelligenza e sensibilità creativa.

The Theory of Everything, in maniera coerente rispetto al titolo che porta, non si limita a esporre, uno dopo l’altro, gli eventi vissuti da Stephen Hawking, ma li seleziona accuratamente cercando di far coincidere, con ognuno di essi, le tappe del pensiero filosofico e scientifico del protagonista, per arrivare a creare una costellazione chiara e luminosa, aperta e non conclusa, capace di suggerirci nuove possibilità e nuove direzioni esistenziali. La costellazione, però, la si percepisce solo a distanza, a film finito, luogo e momento in cui quel disegno cosmico rivelerà il percorso e il senso della ricerca di Hawking. Per fare ciò Marsh realizza una serie di tableau vivant iperreali, in cui anche il dettaglio più semplice – dagli sguardi verso il fuoricampo, alle illuminazioni esasperate, ai movimenti impossibili (di macchina e del protagonista) – richiama potentemente un altrove, arrivando quasi ad annullare lo spazio e il tempo contingenti. Tant’è che alla fine il regista, con una mossa inusuale rispetto al racconto biografico classico, sceglie di riavvolgere il nastro passando in rassegna a retrocedere i punti cardine dell’evoluzione dello scienziato, mostrando insieme la grandezza e l’inezia, la tenacia e la fugacità della vita umana rispetto a quell’inconoscibile “tutto”. Ciò che Marsh tenta di fare, in maniera semplice ma incisiva, è osservare una vita al microscopio, con le sue deformazioni e le sue “stranezze”, affermando l’influenza di ciò che la contiene, che la rende possibile ma anche condizionata e quindi limitata.

theoryofeverything3Se The Theory of Everything è un film retorico, lo è nella misura in cui la retorica è capace di circoscrivere e trasmettere non solo una storia, ma anche una riflessione su quella storia che insieme, e molto gradevolmente, risulta essere la stessa riflessione messa a punto, per tutta una vita, dal suo protagonista. In questo senso, il film, più che retorico appare allora come una figura retorica, la sineddoche, che attraverso la vita di un uomo è capace di mostrare qualcosa su ciò che tanto tenacemente egli ha cercato di sintetizzare: l’universo.

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